35 milioni di persone sono in volo ogni giorno da qualche parte nel mondo, viaggiando a 1.000 km all’ora ad altezze dove non c’è aria per respirare e con temperature esterne dai 40 ai 70 gradi sotto zero. Nonostante l’ambiente esterno non sia dei più confortevoli, passeggeri ed equipaggio stanno comodamente seduti in cabine pressurizzate ad una temperatura di 20-22 °C e in pieno inverno, in poche ore di volo, va o torna da paesi tropicali per godersi un po’ di sole.
Appena si sale c’è subito un cambio di temperatura, dopo il decollo la pressione in cabina diminuisce piano piano fino a stabilizzarsi sui duemila metri di quota, l’umidità è quasi assente e i repentini cambiamenti “climatici”, uniti alla naturale ansia del volo, possono giocare brutti scherzi.
Sempre nel mondo, statisticamente, ogni giorno più di 30 mila persone vengono colpite da infarto, molte di più se si considerano anche semplici malori e svenimenti.
Capita così che quasi nella metà dei voli, in particolare su quelli a lungo raggio, ci sia qualcuno che accusi qualche malessere: un calo di pressione, una nausea, attacchi d’ansia e … a volte peggio.
Febbraio 2017, inverno.
Il volo è Istanbul-Saigon (Ho Chi Minh ufficialmente), l’aereo è un Airbus A-330, molti passeggeri vanno in vacanza e qualcuno di loro torna invece a casa propria, in Vietnam.
La rotta attraversa Turchia, Iran, Pakistan, India, Myanmar, Tailandia, Cambogia e infine Vietnam; 10 ore e 15 minuti di volo per coprire 8.200 km. Siamo tre piloti e a due a due ci alterneremo alla “guida” iniziando con Ibrahim, un anziano comandante turco e un copilota di origini persiane che da tempo vive in Turchia, Faradh. Io resterò in cockpit, seduto nel sedile centrale, a monitorare che non venga tralasciato niente e aiutare in caso di bisogno.
La partenza è fissata per l’una di notte da Istanbul, a Saigon arriveremo verso le sei di sera ma per il nostro ciclo circadiano, con quattro ore di fuso orario, sarà solo il primo pomeriggio.
Imbarco, messa in moto e decollo avvengono senza intoppi, terminata la salita e stabilizzati alla quota di crociera iniziale, me ne vado in “cameretta” (un loculo di un metro per due, accanto alla cabina di pilotaggio) per il mio turno di riposo, poco meno di tre ore; Ibrahim e Faradh andranno più tardi.
A bordo, vista l’ora, dormono già quasi tutti e, finita la distribuzione del primo pasto che l’equipaggio è comunque tenuto a servire, il via vai si attenua e resta solo una leggera e saltuaria turbolenza che culla e concilia il sonno.
Restano di “guardia” alcuni assistenti di volo, mentre il resto, a turno, vanno a riposare in un apposito confortevole alloggiamento situato nel piano inferiore dell’aereo.
In cockpit gli altri due piloti, riforniti regolarmente di caffè e tè portati dalla hostess in servizio, cercano di restare concentrati sul lavoro pregustando il proprio turno di riposo.
Fortunatamente le continue comunicazioni con i vari settori del traffico aereo, il controllo costante dei sistemi di bordo, la verifica del consumo carburante su ogni punto della rotta, la navigazione e gli aggiustamenti di quota mano a mano che l’aereo si alleggerisce del carburante bruciato, li tengono impegnati e svegli.
Tre ore volano (nel vero senso della parola) ed è già il mio turno di prendere il posto del comandante, il copilota resta dov’è mentre l’altro andrà a riposare. In questo modo Faradh riposerà per ultimo e sarà fresco al suo posto quando inizieremo la discesa verso Saigon.
È prassi che, durante il decollo e atterraggio, le postazioni in cockpit siano occupate da un comandante a sinistra e un copilota a destra, mentre in crociera ogni altra combinazione è possibile, anche due copiloti ai comandi quando c’è un solo comandante, durante il suo turno di riposo.
Faradh mi aggiorna sulla situazione:
- sistemi di bordo a posto;
- abbiamo lasciato Tehran e siamo in contatto con Mashhad, che è anche uno degli aeroporti alternati lungo la rotta;
- consumo di carburante regolare, anzi ne avanza più del previsto;
- siamo saliti alla quota ottimale per il peso attuale;
- passeggeri a posto, luci spente e tutti dormono.
Molto bene, siamo nel bel mezzo del Iran, ogni tanto compaiono in lontananza le luci di qualche piccolo villaggio sperduto, tutto funziona come previsto, siamo in orario, sopra di noi la Via Lattea sembra farci strada e “Sono le quattro e mezza ormai…🎼non ho voglia di dormir 🎼…” (Lucio Battisti).
Poco dopo suona il campanello della porta: “DLIN-DLON”…. è la chiamata della Capo Cabina, contemporaneamente si accende un piccolo schermo collegato alla telecamera esterna per sincerarci che, prima di sbloccare la porta blindata, non ci sia un tentativo di dirottamento..o peggio (dopo l’11 Settembre sono state implementate una serie di procedure e modifiche su tutti gli aerei) invece no, è lei e non c’è nessuna minaccia in vista.
Dev’essere il caffè che le ho chiesto prima rientrare in “ufficio” e forse per chiederci se vogliamo anche mangiare qualcosa, ma soprattutto verifica che siamo svegli (ogni 20-30 minuti è previsto che facciano questo controllo… sai com’è, non sarebbe la prima volta che i piloti svengono o si addormentano e l’aereo va avanti da solo con l’Autopilota), quindi la faccio entrare ed esordisce:
“COMANDANTE, UN PASSEGGERO VIETNAMITA NON SI SENTE BENE. HA DEGLI SVENIMENTI E DICE DI AVERE DOLORI AL PETTO. LO ABBIAMO FATTO DISTENDERE IN MID-GALLEY SU DELLE COPERTE, NON HA ACCOMPAGNATORI, VIAGGIA DA SOLO. POSSO FARE L’ANNUNCIO PER CHIEDERE SE C’È UN MEDICO A BORDO?”
Credo che sia la cosa migliore da fare, anche il copilota è d’accordo e autorizzo a procedere.
A bordo non ci sono vere e proprie cucine, si chiamano “galley”, delle piccole isole (2-3-4, dipende dalla lunghezza dell’aereo) dove vengono alloggiati i carrelli dei pasti, i forni elettrici per riscaldare le vivande, bottiglie e altre cose utili, compresi i vari Kit di Pronto Soccorso, bombole d’ossigeno e altro equipaggiamento d’emergenza.
In questi casi, se un dottore è presente fra i passeggeri, ha l’obbligo di dichiararsi e mostrare il tesserino che lo certifichi.
Un dottore a bordo in effetti c’è, è un veterinario…meglio di niente, tanto noi mammiferi funzioniamo più o meno alla stessa maniera; si presenta anche un’infermiera professionista ed entrambi iniziano ad assistere il passeggero cercando di capire cos’abbia.
Da questo momento saranno loro a decidere le priorità del volo. Se non è niente di grave potremo continuare fino a destinazione, in caso di dubbi possono chiedere un parere al centro di assistenza medico asiatico “MedLink” e se la persona fosse in imminente pericolo di vita, dovremo allora atterrare nel più vicino aeroporto con un ospedale nelle vicinanze.
Mentre il copilota cerca di contattare l’assistenza medica via radio e data-link per una specie di anamnesi (sintomi, pressione sanguigna, colorito etc.), io inizio a “guardarmi intorno” per capire dove siamo esattamente in relazione ai vari aeroporti disponibili, casomai la situazione dovesse volgere al peggio.
Tehran è troppo lontana, dovremmo tornare indietro per più di mille chilometri e impiegheremmo almeno un’ora e mezza … troppo; Mashhad è a nord della rotta, 600 chilometri … un’ora; 200 chilometri davanti a noi c’è Zahedan, vicino al confine con il Pakistan, il punto dove contatteremo “Karachi Radar” prima di attraversare il loro paese.
Zahedan è una città con oltre mezzo milione di abitanti, ha diversi ospedali e l’aeroporto ha una pista lunga più di quattro chilometri … cavolo, non badano a spese quaggiù. Piste oltre i tre chilometri sono già un “lusso” per i grandi aerei da trasporto e diversi aeroporti in Iran sono stati costruiti dai russi secondo precisi standard militari … buon per noi.
Interrogo quindi il database di bordo digitando ZAH (codice IATA per l’aeroporto in questione) e subito compare la lista dei vari tipi di avvicinamento strumentale possibili, il tipo di assistenza che possiamo avere a terra, orografia del terreno e … ahhh, ecco perché la pista è così lunga, c’è un motivo!
La città si trova su un grande altopiano circondato da montagne di 2.500 metri, con punte fino a 4.000 metri … e l’aeroporto è a 1.500 metri sopra il livello del mare, per questo le piste sono così lunghe.
Si sa che più si sale e più l’aria è rarefatta, le passeggiate in montagna ce lo fanno capire con il fiatone che viene prima del solito e che serve per compensare la minore quantità di ossigeno presente nell’aria meno densa. Anche l’aereo, per poter volare, deve compensare la minore densità dell’aria, come? Andando più veloce.
Se al livello del mare il flusso d’aria sufficiente a tenerlo in volo si genera a 300 km/h, a 1500 metri di altezza, per avere lo stesso flusso d’aria attorno alle ali, bisogna andare a 350 km/h e la pista, lunga quattro chilometri, diventa come una pista di due chilometri e mezzo al livello del mare, quasi la metà.
C’è anche un altro aspetto da mettere in conto. Siamo decollati poco più di quattro ore fa a pieno carico e abbiamo consumato “solo” 15 tonnellate di carburante; significa che l’aereo è ancora oltre il peso massimo consentito per l’atterraggio.
Se a breve dovessimo dirottare su questo aeroporto, non avremmo tempo di scaricare il carburante per alleggerirci abbastanza e dovremo adottare una procedura particolare per non “stressare” l’aereo, ancora troppo pesante per un atterraggio normale.
Nel frattempo che studio la situazione, il copilota tenta più volte di contattare l’assistenza medica ma senza successo e sia il veterinario che l’infermiera, dovendo valutare una situazione a loro non proprio familiare, per il timore che la persona possa morire per un infarto del quale non sono sicuri i sintomi, giungono alla conclusione che sarebbe meglio atterrare ASAP (As Soon As Possible= il più presto possibile).
Bene… cioè male! Iniziamo la procedura di diversione su Zahedan.
Chiamo la hostess, le dico di svegliare l’altro comandante e di fare l’annuncio per informare i passeggeri che dirotteremo su Zahedan per via di un passeggero che sta male.
E intanto che i passeggeri vengono svegliati e la cabina preparata per l’atterraggio, il copilota ed io cominciamo a spulciare i vari checklist (lista dei controlli) per un atterraggio con infartuato a bordo, in una pista non equipaggiata per atterraggi di precisione (I.L.S.), in mezzo alle montagne, in alta quota, oltre il peso massimo consentito e di notte (ma è già quasi l’alba).
Ci vorranno una trentina di minuti per arrivare a ZAH, ma la “lista della spesa” è lunga; diciamo quindi che per preparare tutto e atterrare … almeno 40 minuti.
Comunichiamo la nostra situazione e intenzioni al settore di Mashhad, i quali si attivano immediatamente per aiutarci. Ci penseranno loro ad avvisare Zahedan del nostro arrivo e ci autorizzano alla discesa contattando già la locale Torre di controllo.
Dopo vari tentativi, finalmente l’operatore in torre a Zahedan risponde e Faradh lo informa che tra circa mezzora atterreremo nel loro aeroporto per via di un passeggero con i sintomi da infarto; richiediamo un’ambulanza sotto bordo e i mezzi antincendio nei pressi del nostro parcheggio per possibili “hot brakes” (surriscaldamento freni).
Non sembra che il tipo abbia capito cosa faremo e cosa richiediamo, ha un linguaggio stentato (probabilmente stava dormendo), l’inglese non dev’essere il suo forte e probabilmente l’informazione inviata da Mashhad non è ancora filtrata attraverso la catena gerarchica per giungere fino alla Torre di controllo.
Zahedan è un aeroporto utilizzato principalmente per voli interni e paesi limitrofi, non sono abituati a ricevere aerei così “ingombranti”, che per giunta comunicano in una lingua diversa dalla loro… come ci diranno in seguito.
Nel frattempo l’altro comandante, interrotto il suo riposo, rientra in cockpit per dare una mano.
Faradh, il copilota, è il colpo di fortuna che ci voleva per questo volo. Originario dell’Iran, parla perfettamente il Farsi (persiano) e assegno a lui il compito di comunicare via radio e più tardi a voce, tutto quello di cui abbiamo bisogno.
Ibrahim dovrà invece aiutarmi a preparare l’aereo per l’atterraggio, leggendo le varie liste di controlli, coadiuvarmi nel calcolo dei parametri di avvicinamento e atterraggio, senza tralasciare le varie note che riguardano le precauzioni da prendere, le cose da evitare e le cose assolutamente da non fare.
È tutto scritto e in più abbiamo il nostro bagaglio d’esperienza personale.
Durante la discesa il sole inizia a far capolino sopra l’orizzonte e il paesaggio, da scuro, cambia in grigio chiaro… brullo, senza vegetazione, monocolore e desertico. Il cielo è sereno e le montagne sono ben visibili, fortunatamente le più alte non si trovano lungo la nostra rotta e posso così prendermi un po’ più di spazio per manovrare e posizionarmi bene per la fase di avvicinamento. Trenta chilometri prima della pista 35-R siamo già allineati e alla quota giusta per iniziare la discesa finale.
Inizio a rallentare … giù i flaps … ancora più piano, giù il carrello … ancora flaps … e quando siamo alla giusta distanza imposto una discesa più graduale del solito, non con i canonici 3 gradi a scendere, ma 2 gradi scarsi.
In gergo si chiama “avvicinamento piatto” e se l’orografia lo permette, consente atterraggi più leggeri e precisi.
La priorità è atterrare al primo tentativo (un secondo giro farebbe perdere 20 minuti e, nel caso di infarto o ischemia, ogni secondo conta); devo inoltre toccare la pista molto dolcemente per non far scattare i “faticometri” montati in diverse parti dell’aereo; sono essi dei sensori di accelerazione che servono per misurare le sollecitazioni della fusoliera durante ogni fase del volo, atterraggio compreso.
Nel caso venissero superati certi valori, sarebbe necessaria un’ispezione per verificare che l’aereo non abbia subito danni e per fare questo occorre un team specializzato che dovrebbe arrivare da Istanbul.
Nel nostro caso siamo veloci, siamo pesanti, l’aria è rarefatta, abbiamo fretta di far scendere il moribondo e tuttavia devo posare l’aereo con meno di 1,8 metri al secondo di velocità verticale (360 ft/min), così dice il manuale e i valori sono inversamente proporzionali al peso dell’aereo.
Tutto va come speravo … una piuma! Con l’uso prolungato degli inversori di spinta e un po’ d’aiuto dei freni alle ruote (per non scaldarli troppo) riusciamo a raggiungere il piazzale vuoto dell’aerostazione, a quest’ora siamo l’unico traffico presente. In cockpit non è suonato alcun allarme, non c’è nessuna spia accesa e questo mi fa capire che l’atterraggio non ha oltrepassato alcun limite … però non vedo neanche nessuna ambulanza (come avevamo richiesto).
Pensavamo di trovare tutto pronto per ricevere il nostro “paziente” e invece, seguendo le indicazioni del parcheggiatore, ci fermiamo dove ci indicano e appena spenti i motori vediamo arrivare un furgoncino che si piazza sotto l’ala sinistra dell’aereo, sul piano di carico c’è un gruppetto di persone che armeggiano con un treppiede, compare una telecamera, dei microfoni … sembra una troupe televisiva e c’è una persona che, gesticolando, sembra dirigere certe inspiegabili operazioni.
Appena viene appoggiata la scaletta, la capo cabina apre la porta anteriore e un trafelato signore sale parlando concitatamente in Farsi. Interviene Faradh, lo fa calmare e ci riferisce che nel loro aeroporto non era mai arrivato un aereo così grosso e questo costituisce un evento di grande audience per la tv locale, quindi…. al segnale del regista “CIAK, SI GIRA!”, si apre un cancello dal quale entra a sirene spiegate la sperata “آمبولانس-Ambulance”.
Il mezzo si ferma accanto alla scaletta, salgono 3 infermieri con barella, caricano il malcapitato e via, sempre a sirene spiegate e i lampeggianti accesi per farsi largo (nella totale assenza di traffico, in una aerostazione deserta, alle sei del mattino) … vabbè, è il loro momento, rappresentiamo un’occasione troppo ghiotta per rompere la monotonia del monotono paesaggio, della monotona vita a quota 1500, nel monotono deserto che li circonda.
Partito il malcapitato, iniziamo a darci da fare per continuare il viaggio fino a destinazione, sperando di ridurre al minimo il ritardo accumulato. Di nuovo, meno male che c’è Faradh!
Intanto che lui “litiga” in persiano per farci avere quello che ci occorre per ripartire, Ibrahim manda al centro operativo della compagnia (O.C.C.) un messaggio in turco (anche loro non sono molto bravi con l’inglese, specialmente il personale di terra) per richiedere un nuovo piano di volo da Zahedan a Saigon, con partenza stimata fra 60 minuti.
A Istanbul sapevano già del nostro dirottamento, un sistema automatico dell’aereo invia continuamente informazioni in data-link sulla rotta seguita e lo stato di funzionamento degli apparati di bordo. A volte succede che, prima ancora che in cockpit si accenda qualche spia, un piccolo malfunzionamento venga segnalato ai tecnici a terra senza che i piloti ne sappiano niente. In questo modo, prima ancora che l’aereo atterri, l’OCC può avvisare i meccanici dell’aeroporto di destinazione di preparare il materiale necessario, evitando così ritardi alla successiva partenza dell’aereo.
Sembra cmq tutto a posto e poco dopo compare sul computer di bordo il nuovo piano di volo inviato dal dispatch via data-link. Da un rapido controllo della nuova rotta e il carburante richiesto, riusciremo ad arrivare in sicurezza a Saigon con il carburante ancora a bordo, senza necessità di doverci rifornire.
Iniziamo quindi le procedure per la partenza, ma non prima di avere notizie sulle condizioni del passeggero: abbiamo contribuito che si salvasse o è stato tutto inutile? È importante per lui, ma anche per noi.
Chiedo a Faradh di parlare con le Operazioni di Zahedan e dopo diverse telefonate, ordini e contrordini, torna in cockpit con un sorrisino. Il passeggero sta bene, i medici hanno assicurato che non era niente di grave, solo un falso allarme e può addirittura continuare il volo per tornare a casa.
Siamo tutti contenti per lui, meglio un falso allarme che un vero infarto. Dovremo però aspettare che torni dall’ospedale… ci vorrà forse un’altra mezzora, ma intanto siamo pronti.
Passa un po’ di tempo, ad un certo punto sul piazzale compare di nuovo il furgoncino con la troupe televisiva a bordo…ancora loro? Ebbene si. Scendono e piazzano di nuovo la telecamera a favore del famoso cancello nella recinzione, di nuovo: “CIAK, SI GIRA!” e il cancello si apre per consentire l’ingresso trionfale alla stessa “آمبولانس” coi lampeggianti blu accesi sul tetto. Chissà da quanto tempo era lì fuori in attesa che il regista desse l’ordine.
L’ambulanza si ferma ai piedi della scaletta, dal portello laterale scende il redivivo con gli occhi a mandorla e, mentre sale la scaletta, saluta all’indietro sorridendo come fosse un Presidente americano che sale sull’Air Force One.
Il resto è storia. TUTTI i passeggeri partiti da Istanbul sono di nuovo a bordo, arriveremo a Saigon con quasi quattro ore di ritardo, nessuno è morto, l’aereo non s’è rotto, la giornata sarà sicuramente da ricordare….e il tutto è stato immortalato per il servizio che andrà in onda in prima serata su Tele-Zahedan: “THE SHOW MUST GO ON!!!”